La miglior difesa è stare con quello che c’è
di Cristina Ferina
Tra i vari detti la miglior difesa è l’attacco oppure la fuga o ancora il distacco, preferisco di gran lunga quello che dice, o forse lo dico solo io, che la miglior difesa è stare con quello che c’è, (inteso come sfide quotidiane).
Nel tempo, ho compreso che più si cerca di resistere ad un evento, una situazione, una scelta, cercando di metterlo in disparte, simulandone l’inesistenza, più questo si rafforza vestendosi di prepotenza, arroganza e ferocia… come un animale selvatico pronto ad attaccare in ogni momento.
Stare con quello che c’è è la postura, interiore, alla base della meditazione, degli esercizi spirituali, delle pratiche filosofiche, del fare anima. È il rigore, e allo stesso tempo l’apertura, che porta alla scoperta del sempre nuovo che popola tutte le cose.
Stare con quello che c’è, senza altra pretesa, anche se all’inizio può bruciare, diventa un balsamo lenitivo.
Penetra, punge, pesa, scatena il pianto… per poi lasciare spazio ad una inspiegabile leggerezza, al miracolo della compassione, alla tenerezza della comprensione.
Stare con quello che c’è è infondere forza alla propria struttura, alla tensointegrità dell’anima, stimolando la Visione consapevole che si esprime ad ogni livello dell’esperienza.
Stare con quello che c’è è essere in linea con l’espansione della forza vitale, nel rispetto di un equilibrio ecologico, in una relazione ancestrale tra l’uomo e la Natura.
Per stare con quello che c’è, all’inizio, serve un po’ di training. È un’attività alla quale ci si deve educare, quanto basta per capire che la bellezza è ovunque, soprattutto nelle situazioni più complesse.
Uno spunto arriva da chi di adattamento e apprendimento, riferito in particolare ai processi industriali, ne sapeva abbastanza, Henry Ford, il quale aveva affermato:
Niente è davvero difficile se lo si divide in piccoli pezzettini
È un concetto applicabile anche alle situazioni della vita. Quando qualcosa è troppo grande da sostenere tutto intero, basta sminuzzarlo; questo succede, banalmente e tutti i giorni, con il cibo.
Perché non provarci anche con gli eventi, gravosi, che incontriamo sul nostro cammino? Prendiamo la cosa che al momento ci desta più preoccupazione, disagio, incertezza e scomponiamola, scegliendo da quale parte iniziare.
In sintesi, impariamo a semplificare, che semplificare è la capacità dei grandi maestri.
Una seconda suggestione giunge dalla parola inglese Fear (paura).
Qualche anno fa lessi che Fear può essere benissimo l’acronimo di False evidence appearing (as) real, ovvero una falsa evidenza che sembra reale.
In pratica, la paura, necessaria in alcune occasioni, il più delle volte, nelle questioni di ordine quotidiano, quindi lavorativo, relazionale, personale, è solo una proiezione della nostra mente, sempre pronta a fronteggiate il peggio, incapace di distinguere tra reale e simbolico.
La paura, per certi aspetti, quindi, non esiste, non ha diritto d’essere.
Manca la cultura della poetica, del senso, della ricerca dell’ordine, delle cause intrinseche e non evidenti, del rischio di apprendere nuove abilità.
Stare con quello che c’è insegna a riconoscere la potenzialità nel limite apparente, lo trascende per offrirci l’opportunità dell’incontro con la parte compassionevole e coraggiosa che ha la forza di scomporre, rendendo meravigliosamente suggestiva e fonte di ispirazione continua anche l’esperienza più cruda, trasformandola in un rifugio premuroso per la discrezione della nostra anima.
Stare con quello che c’è è abitare il mondo.
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